24 febbraio 2011

Conferenza stampa delle Madri in lutto a Roma

Venerdì 25 febbraio ore 11


Venerdì 25 febbraio, ore 11
Sala Tosi: Casa Internazionale delle Donne – Via della Lungara, 19 ROMA



Le Madri di Parco Laleh chiedono abolizione della Pena di Morte

Le madri del Parco Laleh (Madri in lutto)

chiedono la libertà per tutti i prigionieri politici e di coscienza e la fine di tutte le esecuzioni che dall'inizio dell'anno sono già più di 100!! http://www.madaraneparklale.org/p/about-us.html



Le Madri del Parco Laleh chiedono la fine delle esecuzioni che solo nel mese Gennaio e l’inizio del mese Febbraio 2011 erano più di 100 persone


partecipa:
Luisa Morgantini ex vice-presidente del Parlamento europeo

Sabri Najafi per le sostenitrici e sostenitori delle Madri in lutto

Shirin Ebadi premio Nobel per la pace 2003 in videoconferenza.

Le Madri in lutto iraniane sono le madri dei martiri degli ultimi 32 anni. Esse non chiudono gli occhi sulla perdita dei loro figli e chiedono che gli esecutori e i mandanti delle esecuzioni di massa, delle esecuzioni individuali, delle torture, delle violenze, degli assalti alle case ai dormitori degli studenti dagli anni 80 ad oggi vengano puniti.


Organizza:
Donne in Nero e Casa Internazionale delle Donne


Venerdì 25 febbraio ore 11

Conferenza stampa

Venerdì 25 febbraio, ore 11
Sala Tosi: Casa Internazionale delle Donne – Via della Lungara, 19 ROMA



Le Madri di Parco Laleh chiedono abolizione della Pena di Morte

Le madri del Parco Laleh (Madri in lutto)

chiedono la libertà per tutti i prigionieri politici e di coscienza e la fine di tutte le esecuzioni che dall'inizio dell'anno sono già più di 100!! http://www.madaraneparklale.org/p/about-us.html



Le Madri del Parco Laleh chiedono la fine delle esecuzioni che solo nel mese Gennaio e l’inizio del mese Febbraio 2011 erano più di 100 persone


partecipa:
Luisa Morgantini ex vice-presidente del Parlamento europeo

Sabri Najafi per le sostenitrici e sostenitori delle Madri in lutto

Shirin Ebadi premio Nobel per la pace 2003 in videoconferenza.

Le Madri in lutto iraniane sono le madri dei martiri degli ultimi 32 anni. Esse non chiudono gli occhi sulla perdita dei loro figli e chiedono che gli esecutori e i mandanti delle esecuzioni di massa, delle esecuzioni individuali, delle torture, delle violenze, degli assalti alle case ai dormitori degli studenti dagli anni 80 ad oggi vengano puniti.


Organizza:
Donne in Nero e Casa Internazionale delle Donne


Venerdì 25 febbraio ore 11

18 febbraio 2011

Dal CISDA : ALLARME DONNE AFGHANE


IL GOVERNO DI KABUL IMPONE IL SUO CONTROLLO SULLE CASE RIFUGIO!!


Il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane (CISDA) denuncia la legge promossa dal Consiglio dei Ministri dell’Afghanistan nel gennaio 2011 secondo la quale entro 45 giorni dalla sua entrata in vigore le case rifugio per donne maltrattate passeranno dalla gestione delle ONG afghane al controllo del Ministero degli Affari Femminili afghano (MoWA).

Il Decreto accoglie così una precedente decisione della Corte Suprema Afghana – l’organismo legislativo più oscurantista del paese – che ha dichiarato REATO l’allontanamento delle donne da casa per rifugiarsi nei centri di accoglienza per donne maltrattate gestiti dalle Ong. La decisione della Corte Suprema Afghana già limitava la possibilità delle donne vittime di violenza di appellarsi agli organismi giudiziari.

La legge prevede inoltre la chiusura di alcuni rifugi, l’accompagnamento delle donne da parte di un mahram (parente maschio o marito), l’insegnamento della religione islamica e l’obbligo per le donne accolte di sottoporsi a costanti “esami medici” per il monitoraggio della loro attività sessuale. Il governo afferma che la gestione da parte del MoWA garantirà una migliore gestione dei fondi e una migliore scelta dello staff interno. Riteniamo che questa misura sia stata presa solo per compiacere i fondamentalisti e i Taliban, con cui si sono avviate delle trattative; così, i rifugi sono stati accusati di essere case di prostituzione e si è scelto di tenerli sotto controllo.

Questo avrà conseguenze disastrose per le donne vittime di violenza:

* Nessun parente di sesso maschile, men che meno il marito, accompagnerà mai una donna maltrattata in un rifugio: nella maggior parte dei casi sono essi stessi gli artefici delle violenze dalle quali le donne vorrebbero fuggire.

* Lo stupro in Afghanistan è motivo di vergogna e ripudio per la donna. Se l’esame medico provasse che la donna è stata violentata, una volta sotto il controllo governativo la vittima sarebbe condannata invece che accolta.

* Se la donna fugge da un matrimonio forzato, una volta arrivata al rifugio sarebbe denunciata dal governo stesso, poiché allontanarsi da casa è considerato reato.

* Le ragazze rimandate a casa vivrebbero nella vergogna e nell’emarginazione, se non direttamente giustiziate, come dimostrano i vari casi di lapidazione avvenuti in diverse parti del paese negli ultimi mesi.

* Nel caso la famiglia chiedesse il ritorno a casa della donna per qualsivoglia motivo, compreso un matrimonio forzato, lo staff del rifugio non potrebbe rifiutarsi. Come se non bastasse, molte delle donne provenienti da case rifugio, verranno accusate di adulterio all’interno della loro comunità.

* L’Afghanistan è uno dei paesi più corrotti al mondo: non ci sarà più alcuna garanzia sul controllo dei fondi eventualmente stanziati dalle agenzie internazionali a favore delle donne vittime di violenza.

Il governo Karzai, voluto e sostenuto attivamente dall’occupazione militare USA-NATO, non si distingue certo per il rispetto dei diritti umani:

* nel marzo 2009 il governo Karzai ha firmato una legge intesa a colpire soprattutto le donne della comunità shiita: secondo questa legge, le donne non possono rifiutarsi di avere rapporti sessuali con il marito e non possono recarsi a lavoro, dal medico o a scuola senza il suo permesso.

* Nel marzo 2007, il governo Karzai aveva provveduto a garantire l’amnistia per tutti i crimini contro l’umanità commessi in Afghanistan negli ultimi vent’anni.

* Nel gennaio 2007 il giornalista Parwez Kambashkh era stato condannato a morte da un tribunale di Balkh, dopo esser stato accusato di blasfemia a causa delle sue idee sulla parità dei diritti delle donne. Benché Parwez, a seguito delle pressioni internazionali, venne graziato, altre decine di giornalisti versano nelle medesime condizioni.

* Nel luglio 2006, il governo Karzai ha reintrodotto il “Ministero per il Vizio e Virtù”, tristemente noto già sotto il regime Taleban.

* Le organizzazioni afghane che si battono per i Diritti Umani denunciano inoltre le continue pressioni da parte del governo per legalizzare il sistema di “giustizia informale” (tribale) all’interno del quale è prevista la lapidazione delle donne.

E l’Italia? Tra il 2001 e il 2011 il governo italiano ha investito centinaia di milioni di euro nel progetto di ricostruzione della giustizia afghana. Chiediamo al governo italiano e alle forze politiche che hanno sostenuto e ancora sostengono l’intervento militare in Afghanistan di spiegare in che modo sono stati investiti i fondi per la ricostruzione del sistema giudiziario afghano, giacché negli ultimi anni sono state varate leggi che penalizzano pesantemente, anziché favorire, i diritti umani e i diritti delle donne afghane.

INFO CISDA: cell. 3336868938

COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE Onlus

BANCA POPOLARE ETICA – Agenzia Via Melzo, 34 – Milano

IBAN: IT64U0501801600000000113666 – SWIFT: CCRTIT2T84A

Una lettera aperta dalle donne dell'Afghanistan

A coloro che si ergono a guardiani dell'onore delle donne



Non è la prima volta che ci ritroviamo in questa sala. Le pareti, il tavolo, la teiera … quante volte sono stati testimoni delle nostre riunioni, delle nostre delusioni, del nostro disagio. Quante volte hanno accolto il nostro gruppo di donne deluse ma determinate: amiche, attiviste, alleate. Quante volte ci hanno ascoltato, mentre esprimevamo le stesse preoccupazioni. Quanto sono fragili le nostre conquiste. Quanto rimangono prive di significato le leggi approvate grazie alle nostre lotte. Quanto sono inutili le politiche che abbiamo lottato per far applicare in questo Paese che non crede nei diritti delle donne. In questo Paese in cui la posizione di una donna nella società è considerata niente di più del prolungamento del suo ruolo nella famiglia e nella tribù. In questo Paese in cui etica e morale vengono interpretate esclusivamente attraverso la definizione maschile, della quale le donne tutti i giorni pagano il prezzo.


Oggi, il colpo finale: i rifugi per le donne. Ripercorriamone la storia. Inizia quando un mezzo di comunicazione strettamente collegato con il potere accusa falsamente i rifugi delle donne di essere luoghi di prostituzione e immoralità. In risposta a questa accusa, il Governo costituisce una Commissione di alti funzionari – nessuno di loro esperto, nessuno che gestisca un rifugio, nessuno che abbia mai vissuto in un rifugio – affinché valuti la situazione. I Commissari producono un rapporto di parte ed incompleto, senza discutere le loro valutazioni con chi amministra i rifugi né con le organizzazioni che li promuovono.


Noi, attiviste e donne, adesso veniamo accusate dal Governo di aver disonorato l'orgoglio nazionale perché abbiamo reso pubbliche le violazioni gravissime e spesso umilianti dei diritti che vengono inflitte alle donne. Tutto ciò, ci dicono, espone il Paese al disonore, alla vergogna, agli occhi del mondo. Tutto ciò? La rivelazione di violazioni dei diritti umani? Non la corruzione dilagante, non il fallimento palese di dare all'Afghanistan una struttura di governo onesta e giusta? E invece, secondo loro, ciò che disonora il Paese è il rispetto dell'antica tradizione afghana che impone di offrire un rifugio sicuro a chi ne ha più bisogno, di lottare per i diritti dei più vulnerabili? Questo ci disonora?


Nel tentativo di “rimediare” a questi problemi – e di dirottare gli aiuti internazionali dai rifugi indipendenti verso un canale governativo “normalizzato” – il Governo sta usando il Ministero delle Donne come uno strumento per comprimere i diritti delle donne. Il Ministro – senza vergogna – accusa i gruppi femminili di corruzione, ma non offre uno straccio di prova né si impegna a correggere le storture dove queste esistano.


D'altro canto, secondo il bilancio governativo di gennaio, la maggior parte dei Ministeri ha utilizzato meno della metà dei fondi stanziati per programmi di sviluppo nazionale. E ora vogliono trasferire ancora più fondi verso un sistema governativo che non riesce nemmeno a gestire i soldi che ha.


Ma la questione principale non riguarda i fondi. Almeno per quanto concerne la società civile afghana e i gruppi delle donne in particolare – che, tanto per fare un esempio, sono quelli che hanno saputo usare al meglio i soldi ricevuti, riducendo al minimo le spese per garantire programmi utili e concreti, e che producono bilanci trasparenti che ne testimoniano l'efficacia. No, la questione principale ora è Cosa accadrà alle donne?


Purtroppo, le solenni promesse di proteggere e rispettare i diritti delle donne, fatte nelle Conferenze di Londra e Kabul e nella Dichiarazione di Lisbona, non si sono tradotte in azioni concrete da parte del Governo afghano o dei suoi alleati internazionali. Da quando furono solennemente pronunciati quelle promesse, il Governo è addirittura tornato indietro, e il suo impegno per i diritti delle donne è diminuito. E adesso noi dovremmo mettere le donne più vulnerabili della nostra società totalmente nelle mani de nostro Governo?


L'esperienza dei rifugi per donne negli ultimi nove anni dimostra che le donne che li gestiscono e le donne che vi trovano rifugio hanno sempre subito minacce da parte delle istituzioni dello Stato e di coloro che informalmente esercitano potere nella nostra società. Non si tratta della minaccia di tagliare i fondi, niente affatto. Sono minacce insidiose: minacce di tradimento del tipo peggiore. Per esempio, una ragazza dodicenne del Distretto di Shindand a Herat recentemente ha chiesto di essere accolta in un rifugio, ma il Governo, su pressione di un Parlamentare, ha fatto restituire la ragazza alla famiglia. Che l'ha poi uccisa e fatta a pezzi.


E la sua storia non è così diversa da tante altre. La sua storia è una storia comune. Alcune delle donne che abbiamo conosciuto corrono enormi rischi. In modo eroico mettono a rischio non solo la propria vita, ma anche l'incolumità dei propri figli, per cercare rifugio dagli abusi nelle piccole case che offrono sicurezza. Alcune ricevono quotidianamente minacce, addirittura ogni ora. Ma, per loro, vale la pena correre il rischio. Sono donne che hanno visto da vicino la tortura e l'uccisione di altre donne, che sono state esse stesse vittime di orrendi abusi. E corrono il rischio più grande nel cercare di sfuggire alla violenza: mettono in gioco la propria sopravvivenza. Secondo la nuova normativa, i rischi per queste donne e i loro figli alla ricerca di protezione diventerebbero ancora più grandi. Come possiamo permettere che questa accada?


Oggi, una donna a Takhar grida per chiedere giustizia nei confronti del potente locale che ha rapito, tenuto sequestrata e poi ucciso sua figlia. Il perpetratore è il nipote criminale di un Parlamentare che siede – oggi – nel Parlamento a Kabul, che è considerato al di sopra della legge dalle autorità distrettuali. Alla luce del sole. Di quali altre prove avete bisogno? Ogni donna afghana sa benissimo che questa è la situazione nel Paese. Sa anche che, per il Governo afghano, tutto ciò è considerato normale.


Le donne che gestiscono i rifugi lavorano ogni giorno per proteggere la vita delle loro sorelle afghane, indipendentemente dalle opinioni politiche o dall'appartenenza etnica. E si trovano di fronte ostacoli enormi. Tra il 40 e il 60% di tutti i casi conosciuti di violenza vengono manipolati da qualche potente che esercita influenza sulle autorità, che fa pressione sul Governo affinché la donna venga restituita al padre o marito – padrone violento – da cui cercava di fuggire.


Noi chiediamo al nostro Governo: Sei davvero in grado di assumerti la responsabilità di proteggere la vita di queste donne?


E credi davvero che esercitare il controllo totale sulla vita delle donne, fin dentro il luogo della loro ultima speranza di salvezza, ti aiuterà a costruire una migliore immagine internazionale del Paese? Questa decisione la prendi davvero nel migliore interesse delle donne, anche quando sai benissimo che sei il secondo governo più corrotto al mondo? Questa nuova normativa riuscirà miracolosamente ad essere indenne dalle influenze potenti e corrotte che infettano tutti gli altri settori governativi? Come riuscirai a garantire questo? E, cosa più importante, Cosa possiamo fare noi per fermarti?


1Afghan Women's Network (AWN) è una rete di organizzazioni di donne, di attiviste e di difensori dei diritti umani dell'Afghanistan. Ne fanno parte più di 5000 donne e oltre 75 Organizzazioni non-governative.

3 febbraio 2011

Adesione delle Donne in Nero -rete italiana- alla campagna BDS

Apparteniamo alla rete internazionale delle Donne in Nero, la nostra azione nel mondo è quella di opporci alle guerre, a ogni tipo di violenza, nella convinzione che ogni conflitto possa essere agito con il confronto, il dialogo nel rispetto dei diritti umani, sociali, politici.

Siamo da più di venti anni impegnate per una pace giusta in Medio Oriente, una pace che applichi il diritto e la legalità internazionale, mettendo fine alla politica coloniale israeliana e alle continue violenze, sofferenze e punizioni collettive subite dalla popolazione palestinese, messe in atto dal governo, dai coloni e dall’esercito israeliano, causate dall’occupazione illegale dei territori palestinesi, dalla politica di apartheid e dall’assedio della Striscia di Gaza.

Ci siamo recate più volte in quelle terre, abbiamo ascoltato le donne israeliane e palestinesi, abbiamo lavorato con loro cercando di creare o rafforzare relazioni. Le Donne in Nero israeliane si sono formate immediatamente all’inizio della prima Intifadah opponendosi all’occupazione voluta dal loro governo e dando vita allo stesso tempo al nostro movimento. Abbiamo sostenuto in Italia e nel mondo la loro lotta e quella delle donne palestinesi.

Siamo andate ai check point a protestare con loro, abbiamo fatto parte di delegazioni internazionali in appoggio ai movimenti pacifisti e alle lotte nonviolente della popolazione palestinese; dopo il massacro di Gaza del 2008/09, in cui l’esercito israeliano si è macchiato di gravissimi crimini di guerra (1.400 morti fra cui 400 bambine/i) la situazione si è fatta molto più grave.

Per questo noi Donne in Nero della rete italiana, dopo meditata e spesso sofferta discussione, abbiamo deciso di aderire alla campagna mondiale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) lanciata nel 2005 dalla società civile palestinese, il Boycott National Committee (BNC), formato da oltre 170 organizzazioni, comitati, partiti e sindacati palestinesi, campagna sostenuta da associazioni, movimenti e anche istituzioni governative in Europa e nel mondo. Appoggiamo inoltre la campagna dell’Autorità Palestinese per il boicottaggio dei prodotti nei Territori occupati, “La tua coscienza, la tua scelta”, attuata attraverso la legge che proibisce la distribuzione e il consumo dei prodotti delle colonie illegali israeliane e la mobilitazione di migliaia di giovani donne e uomini con cui il BNC collabora e l’appello a fare altrettanto negli altri paesi del mondo. Sosteniamo infine la campagna “Boycott from Within”, lanciata a sostegno del BDS da un vasto arco di associazioni nonviolente israeliane, fra tutte vogliamo citare la Coalition of Women for Peace e la WILPF israeliana.

  • Il boicottaggio è una pratica nonviolenta di non-collaborazione all’ingiustizia
  • Il boicottaggio economico si pratica sulle merci prodotte nelle colonie israeliane illegali perché costruite nei Territori Occupati e sulle merci prodotte da ditte o da multinazionali che sostengono l’occupazione. Cittadine/i, consumatrici/ori rifiutano di acquistare determinate merci prodotte senza rispettare i diritti umani, i diritti del lavoro e le norme ambientali ed esigono l’applicazione integrale degli accordi commerciali fra UE e Israele e il rispetto della legalità internazionale..
  • Il boicottaggio culturale denuncia gli accordi stipulati da Università, Enti locali e altre Istituzioni italiane per collaborazioni tecnologiche, scientifiche e culturali con Istituzioni israeliane compromesse con l’occupazione. Il Governo israeliano infatti utilizza il mondo universitario, i film, le opere letterarie, il turismo ecc. per promuovere l’immagine di un paese normale, in pace, felice, democratico che cancelli quella di una potenza occupante che opprime e viola sistematicamente i diritti del popolo palestinese. Naturalmente il boicottaggio culturale non intende essere applicato a chi sostiene la lotta nonviolenta contro l’occupazione militare e l’applicazione del diritto internazionale
  • Come cittadine italiane chiediamo l’abrogazione degli accordi militari con lo Stato d’Israele. La collaborazione attuale dello Stato italiano con un regime oppressivo come quello israeliano è una luce verde all'attuazione di altri crimini e alla violazione di altri diritti del popolo palestinese.

Il boicottaggio non è contro la popolazione israeliana e meno che meno contro gli ebrei, ma contro il governo israeliano, contro l’occupazione militare dei Territori Palestinesi e gli insediamenti di coloni sempre in aumento, contro l’economia di guerra. Ad esso associamo iniziative per il diritto allo studio delle/dei giovani palestinesi e ci impegniamo a mantenere contatti con donne israeliane e palestinesi che sostengono la campagna BDS e a promuovere loro interventi in Italia.

Crediamo che il BDS sia uno strumento necessario per fermare la politica di espansione coloniale israeliana, uno strumento per rendere Israele e la Comunità Internazionale responsabili delle violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani; crediamo sia anche uno strumento di comunicazione per far conoscere la reale situazione della Cisgiordania e di Gaza.

Novembre 2010